Mercoledì, 18 Ottobre 2023 05:12

Sara Reginella: “Guerra del Donbass sconosciuta, ma la propaganda non può insabbiare la questione palestinese” In evidenza

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 “Le manifestazioni in sostegno alla Palestina servono a fare pressioni sui governi, non a tifare per le armi”

di Giulia Bertotto Roma, 17 ottobre 2023 (Quotidianoweb.it) - Quotidianoweb intervista oggi Sara Reginella. Autrice, documentarista, militante senza partito, formazione psicoterapeuta, una chioma fucsia e nessun pelo sulla lingua.

Dal febbraio 2022 abbiamo assistito alla partigianizzazione del battaglione Azov, oggi invece vediamo l’identificazione della Palestina con Hamas. Due guerre diverse, due territori storici e simbolici differenti, due “escatologie” fortissime, ma le strategie di propaganda e di mistificazione sono affini e semplificano la realtà polarizzando la questione in una febbre da stadio.

Quella del Donbass, come lei ha scritto nel suo reportage narrativo (“Donbass. La guerra fantasma nel cuore d’Europa” Exòrma 2021) era una guerra fantasma, l'oppressione sionista sulla Palestina è stata raccontata nei decenni tuttavia oggi si cerca di rendere uno spettro anche questa occupazione violenta e questo apartheid lungo 75 anni.

Sì, sono evidenti dei meccanismi di propaganda analoghi, ma la grande differenza riguarda il modo a cui l’opinione pubblica ha recepito questi due conflitti: nel caso del conflitto ucraino c’era una quasi totale ignoranza, mentre la questione palestinese è conosciuta. Questo perché fino a pochi decenni fa era ancora possibile veicolare una pluralità di informazioni e di interpretazione dei fatti storici. Nel caso del conflitto palestinese la propaganda non ha potuto far credere che all’improvviso i palestinesi fossero impazziti e avessero attaccato uno Stato sovrano senza alcuna ragione, come invece aveva fatto credere con l’attacco di Putin lo scorso febbraio.

Il paradosso è che sono aumentati e cresciuti i mezzi di informazione, ma la libertà di stampa e comunicazione è invece gravemente diminuita e compromessa. La memoria è uno degli antidoti a questo pericolo di perdita del passato, di perdita del contatto con la realtà persino.

Notiamo un esempio abbastanza gretto di manipolazione: se si parla di vittime palestinesi i giornali scrivono “sono morti in un attacco” se si parla di vittime israeliane scrivono “sono stati uccisi o barbaramente massacrati”.

Vengono occultati i livelli di complessità delle questioni in ballo e si utilizzano anche mezzi linguistici come quelli menzionati. Si generano poi nei media dei cortocircuiti tragicomici di logica e senso; emblematico il caso Zaki. Prima conteso da tutte le Tv e ora diventato il nemico numero uno, allontanato dai circuiti intellettuali come il Salone del Libro non appena ha dato il suo punto di vista -condivisibile o meno- ma legittimo, sulla guerra in Medioriente. L’opinione pubblica dovrebbe rendersi conto che il dispositivo di menzogne usato per la Palestina è lo stesso usato per la guerra in Donbass, in Iraq, e in molti altri fronti negli ultimi decenni. D’altro canto però vorrei lanciare un monito di attenzione: non tutto ciò che viene affermato dal cosiddetto mainstream è falso. Occorre stare attenti a questa trappola, che può portare alla paranoia ed errori interpretativi molto fuorvianti. Anche nel mondo della cosiddetta controinformazione si possono osservare contraddizioni che dobbiamo essere pronti e disponibili a riconoscere. I Social e il Web con i loro meccanismi alienanti non fanno che esasperare questo stato di cose, per questo è importante stare nelle piazze, parlare con la gente, essere presenti sui territori.

Piazze che vengono vietate come in Francia e manifestazioni che vengono censurate dai Telegiornali o che vengono diffamate con l’accusa di inneggiare al terrorismo.

Vorrei distinguere tra le istanze della popolazione palestinese e quelle delle popolazioni che scendono nelle strade e nei cortei per il sostegno a questa causa. Comprendo la ribellione palestinese, comprendo che i popoli oppressi possano fare delle scelte, ma non posso accettare che lo facciamo noi, noi abbiamo il privilegio della pace e il compito di far leva su altri livelli di dissenso e della ribellione. Se noi, che non abbiamo bisogno di usare le bombe, facciamo pressione in maniera oceanica ma pacifica nelle piazze, possiamo contribuire ad una risoluzione diplomatica del conflitto e così anche ad evitare che le parti in causa debbano ancora usare armi causando la morte dei civili.

Civili che dobbiamo sempre difendere, anche perché la generalizzazione è nemica della pace: gli ucraini non sono certo tutti nazisti, come gli israeliani non sono tutti sostenitori di chi cementifica i pozzi della Palestina e i palestinesi non sono certo tutti terroristi.

L’obiettivo di chi, legittimamente, manifesta per la resistenza della Palestina non deve essere un inno alla violenza, un parteggiare calcistico, un tifo insomma: dobbiamo ricordare sempre che l’obiettivo di queste proteste è quello di far sentire alle istituzioni e al Governo la pressione della volontà popolare, la quale preme per una risoluzione pacifica, per l’intervento della diplomazia, per la risoluzione tramite negoziati. Se vogliamo davvero aiutare i palestinesi dobbiamo premere sul Governo per la via diplomatica, perché se potessero evitare di usare le bombe, ci ringrazierebbero.

Quando abbiamo intervistato Benjamin Abelow sul legame tra trauma infantile e guerra LINK https://www.quotidianoweb.it/inchieste/interviste/come-loccidente-ha-provocato-la-guerra-in-ucraina-intervista-esclusiva-a-benjamin-abelow-2-parte/  , l’autore di “Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina” ci ha detto che Ci sono altri modi in cui entra in gioco il trauma infantile. Credo che quelle persone che sono attratte da movimenti violenti di estrema destra – e questo include il neonazismo, il fascismo e l’ultranazionalismo, compresi i movimenti ultranazionalisti di estrema destra sia in Russia che in Ucraina – spesso hanno sopportato un’infanzia particolarmente dura. Vedo queste persone essenzialmente come bambini molto feriti, che sono diventati adulti ma sono rimasti preoccupati dalla paura e dalla rabbia dell’infanzia.

Le loro azioni e la loro comprensione del mondo sono distorte. In molti casi stanno combattendo battaglie che nella realtà non esistono, eppure la violenza che infliggono e le conseguenze della loro indifferenza emotiva e della loro brutale aggressività sono molto reali. Ad esempio, ho studiato i modelli educativi imposti ai bambini durante le generazioni precedenti l’ascesa del nazismo in Germania. Quando si guarda alla brutalità che questi bambini hanno sopportato e la si confronta con la brutalità che hanno inflitto da adulti alle loro vittime, l’intera situazione diventa molto più chiara. Non ci sentiamo più di fronte a un grande mistero sulle origini della violenza. Invece, vediamo come “il trauma genera trauma”, una situazione in cui i bambini che sono stati traumatizzati diventano adulti che infliggono traumi agli altri”.

La violenza può generare altra violenza. Però voglio sottolineare che chi subisce soprusi per tanto tempo rischia l’imbarbarimento, ma è un rischio e non un automatismo, chi viene maltrattato, non è detto che diventi automaticamente maltrattante. Dobbiamo sempre tenere presenti anche le facoltà razionali, il nostro libero arbitrio, la capacità di giudizio e la coscienza etica. È importante riuscire a trasformare la propria vita in maniera costruttiva, a partire dalle situazioni, anche estremamente dolorose, che l’esistenza offre.

In questa fase storica, dunque, diffido di chi in Occidente sostiene l’uso della violenza per raggiungere un equilibrio geopolitico multipolare. Credo si tratti di un atteggiamento immaturo, proprio di chi la guerra non l’ha mai vista. Non si costruisce un mondo multipolare a suon di bombe. Attenzione alla tifoseria perché i roghi di guerra nei fronti del Medioriente, in Ucraina tra NATO e Russia, tra Cina e Taiwan, in Africa, tra Serbia e Kosovo, possono diventare un grande incendio che può bruciare anche noi. Con l’affermarsi dei BRICS, gli equilibri internazionali non sono più gli stessi di solo pochi anni fa, e le condizioni di tutti noi sono precarie. Noi che non siamo vissuti sotto le bombe abbiamo perciò la possibilità di sostenere un mondo multipolare attraverso i meccanismi del dialogo, della stampa, della protesta civile e non della guerra.