Martedì, 24 Ottobre 2023 06:21

“Capitalismo Woke”: la democrazia assediata dalla falsa morale In evidenza

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Una lettura imprescindibile per provare ad essere consumatori consapevoli, elettori responsabili, cittadini emancipati dal marketing del senso di colpa

“Io mi son parte di quella possanza che vuole continuamente il male, e continuamente produce il bene”

(Faust, parte I)

Di Giulia Bertotto Roma, 23 ottobre 2023 (Quotidianoweb.it) - Il saggio del docente australiano della University of Technology di Sidney, Carl Rhodes, Capitalismo Woke Come la moralità aziendale minaccia la democrazia (Fazi Editore 2023, Prefazione di Carlo Galli) si apre con la precisione etimologica di un saggio di linguistica per trasformarsi presto in un manifesto per la salvaguardia della democrazia occidentale.

Sfogliamolo insieme questo libro -una lettura imprescindibile sul tema- per provare ad essere consumatori consapevoli, elettori responsabili, cittadini emancipati dal marketing del senso di colpa.

Perversione linguistica, abuso politico

Il testo offre un’ampia disamina sulla storia del termine “woke”, il quale nasce in seno alla cultura afroamericana per rivendicare i diritti di questa comunità contro le discriminazioni razziali, e diventa poi sinonimo di falso moralismo, di quell’atteggiamento aziendale che promuove un’etica attenta a diverse cause sociali solo per rimpinguare i propri profitti.

La parola significa letteralmente “stare svegli” e in origine suggerisce l’essere vigili alle questioni sociali e alle iniquità, presto deviata in woke washing ossia “una pratica di marketing e pubbliche relazioni con cui le grandi imprese sperano che, associandosi a cause politiche più che giuste, otterranno il favore dei clienti e un guadagno commerciale”.

Una perversione semantica che le aziende hanno compiuto deliberatamente, un abuso politico e sociale di un’espressione nata con intenti morali autentici, spiega l’autore, che ci riporta esempi eclatanti di come ci siano stridenti contrasti tra le politiche commerciali di alcune potenti aziende e le loro dichiarazioni in materia umanitaria e ambientalista: le gesta di Larry Fink, miliardario a capo della società di investimenti BlackRock, che con suo jet privato è volato da New York a Sidney, rilasciando una valanga di emissioni per raggiungere proprio una conferenza sul clima; la “pubblicità sfrontata”  del marchio di gioielli di lusso Tiffany&Co contro il cambiamento climatico, ma ad hoc solo per battere il ferro finché è caldo degli incendi in Australia; il noto scandalo Nestlé, che distribuì latte in polvere alle donne africane che non avevano accesso all’acqua potabile.

Nel 1958 il consulente di gestione Theodore Levitt scriveva sarcastico: “la preoccupazione per la responsabilità sociale del management è diventata ben più che una forma filistea di autoelogio (…) è diventata un’occupazione mortalmente seria: l’autoconsapevole preoccupazione di ritrovare l’anima attraverso le responsabilità sociali degli affari”[1].

Non a caso, a proposito di anima, Rhodes parla di una corruzione maligna: “se la moralità aziendale ci impone un patto faustiano, in cui barattiamo il diritto democratico all’autogoverno per i doni che i ricchi decidono di elargirci, allora è giunto il momento di opporci”[2].

Lo stesso conflitto tra anima del woke e corpo fittizio dell’ideologia woke, come descritto dall’autore, ricorda una sorta di dicotomia platonica che vede in tensione il corpo illusorio e l’interiorità essenziale di questa parola.

L’abbaglio dei conservatori

L’autore insiste su quello che sarebbe un abbaglio dei conservatori, i quali vedrebbero nel capitalismo woke non la perniciosa minaccia all’ordine democratico, ma un attentato al sistema capitalista. L'autore si scaglia quindi anche contro i conservatori, colpevoli di aver ridicolizzato il capitalismo woke e così averne minimizzato la pericolosità agli occhi dell’opinione pubblica. Per l'autore, la destra non avrebbe smascherato l'intento woke ma lo avrebbe scambiato per un pericolo per il capitalismo, quando invece il nefasto e nascosto scopo è proprio salvare il capitalismo; i reazionari non ne avrebbero colto la portata politica e l’insidia per la democrazia.

Il capitalismo woke ricopre la funzione di legittimare e di proteggere il capitalismo da possibili ondate di ribellione, visti anche l’inflazione crescente, le privatizzazioni e delocalizzazioni selvagge, le ingiustizie diffuse, la povertà e il malessere collettivo in aumento. Evitare le rivoluzioni e sedare le rivolte sociali, sarebbe questo lo scopo di un capitalismo truccato di verde ambiente e rosa femminismo.

Secondo l’autore occorre perciò liberare la democrazia (il vero woke) dall’utilizzo lucrativo diabolico che enti privati come grandi multinazionali, colossi finanziari e pirati dell’investimento fanno del travestimento woke, cercando di sostituirsi allo Stato.

L’antidoto woke al camuffamento “woke”

Il capitalismo woke non vuole tutelare né i koala australiani né assicurare diritti alla comunità LGBT: l’unico mondo che vuole salvare è quello neoliberale, lo status quo in cui ciascuno è imprenditore di sé stesso[3] spiega Rhodes.

Intento dell’autore è invece salvare l’eredità del movimento woke dal wokismo di facciata, condannando la forma woke assunta dal neoliberismo in crisi -a causa delle condizioni di degrado e sofferenza sociale generato dallo stesso- ma più feroce che mai.

L’antidoto è dunque quello di recuperare il vero significato del termine woke e così salvare il cuore woke dal camuffamento wokista, al fine di garantire la democrazia in Occidente. In Italia diciamo “non buttare il bambino con l’acqua sporca”, del capitalismo dissimulato da impegno solidale.

Dobbiamo essere consapevoli di questo immane spostamento dalla sfera di potere economica a quella politica. Perché non sarà una mano invisibile a distribuire le ricchezze, né un gigante imprenditoriale al posto delle entità pubbliche, potrà restituirci il nostro protagonismo politico, sociale ed etico.

E neppure l’anima.

Capitalismo_Woke_interna.jpeg 

[1] P. 75.

[2] P. 45.

[3] Quello che nel saggio viene chiamato “capitalismo popolare”, un’espressione embelmatica e paradossale per definire il progetto di condizionamento sociale di M. Thatcher nel Regno Unito degli anni ’80: un Occidente in cui tutti si considerassero come titolari di un’impresa e non cittadini e famiglie, meno che mai associati in sindacati o partiti.