Martedì, 08 Agosto 2023 06:22

Elisabetta: “Mio padre, una morte utile a creare il panico da Covid-19” In evidenza

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Di Giulia Bertotto Roma, 6 agosto 2023 (Quotidianoweb.it) - Elisabetta, presidente del Comitato L’Altra verità, ci racconta la storia di suo padre, Antonio Stellabotte, deceduto in ospedale a 77 anni, durante l’emergenza Covid-19. Antonio, ci spiega, era un uomo in salute, che ricoverato il due febbraio 2021 presso un ospedale cisternino lombardo per un innalzamento glicemico.

Elisabetta, suo padre è stato ricoverato a febbraio 2021 per un innalzamento glicemico e poi non lo ha più visto. Grazie per aver scelto di raccontarci il dramma che la sua famiglia ha vissuto.

Sì, mio papà Antonio è stato ricoverato per un innalzamento glicemico, io stessa ho chiamato i sanitari del 118, e poi trattenuto in quanto in Stato di Emergenza nessuno poteva accedere ai pronti soccorso e riportare a casa i propri cari. Dopo due giorni di permanenza in ospedale noi famigliari siamo riusciti a scoprire il reparto in cui si trovava e perché: polmonite, ma negativo al Covid-19, dall’esito di tre tamponi.

Papà resta in ospedale per 20 giorni poi viene dimesso in tutta fretta dai medici, preoccupati perché nel reparto c’erano pazienti positivi al virus. A casa permane per 15 giorni, con cura antibiotica che procede senza problemi. Ma il 15° giorno ha un rialzamento glicemico, quindi con il 118 viene trasportato in un altro ospedale lombardo del quale non posso dire il nome per ragioni legali. La data di questo secondo ricovero è il 13 marzo 2021.

Dopo due giorni ci ha contattati la dottoressa che lo aveva in cura per comunicarci che mio padre è positivo al Covid, e io le rispondo immediatamente che è intenzione della nostra famiglia portarlo immediatamente a casa in quanto possiamo isolarlo in un ambiente grande a due piani. La richiesta viene in un primo momento accolta, ma il giorno successivo viene negata per innalzamento della temperatura.

Le comunico che suo padre non rientra tra i pazienti che porterò in terapia intensiva per salvarli”, aggiunge. Per via del diabete e dell’età, il protocollo lo esclude.

Ma in quel momento non capisco il senso di questa affermazione dato che mio padre non è entrato nella struttura in gravi condizioni. Lui è salito sull’ambulanza con le sue gambe, era lucido, mi ha persino scritto il piano in cui si trova ricoverato per sms. “Ma in questo momento la terapia intensiva è così oberata?” domando alla dottoressa. No, ma il protocollo detta questo, è la sua risposta.

Quindi lei veniva informata che qualora le condizioni cliniche di suo padre si fossero aggravate, non lo avrebbero portato in terapia intensiva, per lasciare posto ad altri pazienti ritenuti dal protocollo dotati di maggiori possibilità di sopravvivere.

Esatto. Nei giorni successivi parlo con mio papà attraverso delle videochiamate e sta bene, non ha alcun tipo di problema respiratorio, è lucido, ci chiede come stiamo ed è anche sereno perché per lui quella che lo ospita è una struttura d’eccellenza della nostra regione.

Il 4° giorno si interrompono le comunicazioni, il telefonino squilla a vuoto e dopo una decina di telefonate in reparto, scopro che papà non risponde perché è stato legato ai polsi, sta subendo un trattamento di contenimento perché si agita e chiede di tornare a casa. Ho minacciato di chiamare i carabinieri e così ho potuto parlare di nuovo con lui. E’ scritto anche sulla cartella clinica. Nei giorni successivi era la struttura sanitaria a chiamare e il decimo giorno mi viene detto che le condizioni di mio padre sono talmente gravi che non sanno più cosa fare per curarlo.

Lo hanno sottoposto a casco Cpap contro la mia volontà. Mi ero opposta in quanto avevo letto degli studi che affermavano come un eccesso di ossigenazione ai polmoni aggravasse le condizioni dei pazienti Covid. Mio padre respirava autonomamente! Solo in seguito, dalla cartella clinica, scoprirò che è stato messo sotto saturazione al 97%, una cosa gravissima. Mi dicono che i medici hanno eseguito il protocollo, il paziente non risponde e quindi proseguiranno con una terapia palliativa.

Dopo mezz’ora mi chiama papà molto cosciente e lucido dicendo che vuole assolutamente tornare a casa. Le infermiere gli tolgono il telefono di mano e mi dicono che nel pomeriggio mi chiamerà la dottoressa per spiegarmi la situazione. La dottoressa mi ripete la stessa cosa, diagnosi Covid, ma il paziente non risponde alle cure e procederanno con terapia palliativa a base di morfina. Nego il mio consenso, ma essendo in stato di emergenza il medico può procedere comunque senza autorizzazione.

Scusi per le parole forti, ma quello che lei descrive sembra più un “rapimento”, che un ricovero.

Sì, eccome! A quel punto i dottori stabiliscono ora e data di un congedo programmato di fine vita. Faccio notare che essendo un paziente con una storia di depressione alle spalle, avrebbe diritto ad un parente a fianco in questo momento. Ma ci viene negato. La chiamata dura 45 secondi, tutti noi salutiamo papà con la mano, la mamma fa appena in tempo a dirgli “ti amo” dopo 54 anni di matrimonio. Lui era cosciente e ci guardava attraverso il casco.

La mia reazione a questo trattamento è stata fortissima e la dottoressa, -spaventata- si è scusata dicendo che non aveva compreso l’esigenza di vedere mio papà fisicamente e ha attribuito alla direzione sanitaria la responsabilità di non permettere gli accessi.

Alle 5 del mattino del giorno seguente sono lì. In direzione sanitaria mi dicono esattamente il contrario: mio padre, essendo un paziente emotivamente fragile, aveva diritto ad avere accanto un familiare. Papà era in stato semi cosciente, mi ha stretto la mano e ha provato ad alzare il busto per abbracciarmi.

Sono andata fuori di testa, mi sono sentita impotente e al contempo complice di quello che è un “omicidio”, e mi assumo tutta la personale responsabilità giuridica di questo termine. In data 23 marzo 2021 mi viene comunicato il decesso di mio padre.

Devo necessariamente domandarglielo. Secondo lei perché? Perché il sistema sanitario avrebbe somministrato per mesi, farmaci e terapie errate a molti pazienti?

Personalmente, ma non sono la sola a pensarlo nel Comitato, credo che queste morti siano servite per generare il senso di panico nella popolazione al fine di ottenere un consenso passivo alla vaccinazione. Vaccinazione a fini di profitto economico e di riduzione della popolazione. Questo è ciò che penso.

Questa è l’esperienza che hanno vissuto tante persone nel nostro paese ed è la versione vera e cruda che la narrazione non dice. Dopo un dolore del genere o impazzisci o trovi il modo di trasformarlo in qualcosa di valido per la comunità. Da questa volontà è nato il Comitato L’altra verità, familiari che hanno attraversato lo stesso dramma. Le nostre cartelle cliniche dicono tutte la stessa cosa: i nostri morti non sono deceduti per Covid ma perché curati in maniera incongrua e portati alla morte.

Non si tratterebbe solo di gravi, frequenti, ma slegati episodi di malasanità.

Il meccanismo secondo lei sarebbe questo: una persona entra in ospedale per un qualsiasi problema, da una botta al ginocchio ad un’eruzione cutanea, poi emerge la positività al virus (reale o fittizia). A quel punto invece di cercare di guarire il paziente dal disturbo per il quale si è rivolto alla struttura medica, si deve aggravare il suo stato di salute e portarlo fino al decesso.

Sì. Cosa c’entra la morfina, e in dosi quattro volte maggiori a quella consentita, per un virus che si cura con farmaci da banco? Non lo dico certo io, lo dicono luminari internazionali!

La maggior parte dei nostri medici non ha voluto vedere cosa stava succedendo per non rischiare guai con la legge e la carriera, ma all’interno del Comitato abbiamo confrontato le nostre esperienze e abbiamo scoperto che -come da protocollo- ai nostri cari sono stati somministrati i primi farmaci solo dopo 4 giorni dalla positività al tampone, e tutti sono stati trattati con il Remdesivir, in USA bandito perché provocava gli stessi sintomi del Covid, e assolutamente da non somministrare a pazienti con problemi di diabete e renali come mio padre. Per me, quello che è successo a mio padre, Antonio Stellabotte, ha un solo nome: omicidio di stato. E adesso lo Stato deve prendersi il senso di colpa di tutti noi familiari che abbiamo chiamato quell’ambulanza e consegnato i nostri amati e parenti alla Sanità.

Lei ha scritto, bussato, denunciato, alle istituzioni, agli organi di stampa e alle Televisioni?

Certamente. Al sindaco del mio paese, Cesano Maderno, ho mandato diverse e-mail e una Pec. Non ho ricevuto alcuna risposta. Cesano Maderno era anche il paese del mio papà. Come cittadino di questo paese ha diritto di essere riconosciuto nella verità della sua storia ed è un diritto anche per la cittadinanza di questo Comune. Il 13 settembre ci sarà una messa in memoria di tutti i cittadini di Cesano Maderno deceduti per questo fantomatico Covid; mi dispiace ma non credo più neppure all’esistenza di un virus mortale.

L’unico dono che posso fare a mio padre è cercare di far emergere la verità. Tutti coloro che hanno avuto un decesso per Covid-19 possono leggere sulla cartella clinica, nero su bianco, cosa è stato fatto davvero al proprio parente, amico o amato. Non deve accadere mai più.

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