Giovedì, 23 Novembre 2023 05:57

Trapianti, Fantini: “Morte cerebrale, la frode bioetica per l’esportazione di organi ai vivi” In evidenza

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In dialogo con Roberto Fantini, professore di filosofia e autore del saggio “Vivi o morti? Morte cerebrale e trapianto di organi: certezze vere e false, dubbi e interrogativi”

Di Giulia Bertotto Roma, 22 novembre 2023 (Quotidianoweb.it) - Il saggio “Vivi o Morti? Morte cerebrale e trapianto di organi: certezze vere e false, dubbi e interrogativi” nella sua seconda edizione aggiornata e ampliata (Edizioni Efesto, 2023) di Roberto Fantini, professore di filosofia e saggista, si inserisce a pieno titolo nel dibattito contemporaneo sul “fine vita”, con una tematica sottovalutata nel panorama biopolitico e sociosanitario: quella della trapiantistica. La questione filosofica è di portata sconfinata e non risolvibile per i suoi risvolti metafisici (solleva l’interrogativo di quando e come inizi e finisca la vita di ciascuno e in che modo essa si incarni nel corpo), la portata bioetica è immensa, tuttavia il dibattito è spento.

Fino al 1968 i parametri per definire se un paziente fosse morto erano -in ragione dell’impossibilità scientifica ed epistemologica di conoscere il momento del trapasso- multifattoriali, e prendevano in considerazione diversi criteri clinici e segni vitali. Dall’agosto di quell’anno invece, un Comitato della Harvard Medical School ha introdotto un nuovo paradigma, quello della “morte cerebrale” che in sintesi, spiega Fantini (ma già altri medici e giuristi prima di lui) permette di estrarre organi da pazienti classificati come defunti ma che defunti non sono; infatti il loro cuore batte, i reni drenano, i polmoni funzionano, le donne possono perfino partorire e gli uomini emettere seme. Occorre, si badi bene, addirittura anestetizzare questi deceduti (!) per evitare la contrazione muscolare durante questa vivisezione spacciata per filantropismo. Alle agenzie che si occupano di questa pratica occorre infatti estirpare gli organi ancora irrorati dal sangue e ossigenati dalla respirazione. Una rete di profitti da capogiro, interessi mondiali, un vero capitalismo degli organi e delle funzioni vitali. Ne abbiamo parlato direttamente con l’autore di questo libro-inchiesta inquietante, relativo ad un tema universale e di importanza capitale per tutti.

L’INTERVISTA AL PROFESSORE E AUTORE ROBERTO FANTINI

Oggi la filosofia della solidarietà, nasconde e insabbia obiettivi di speculazione a carattere biopolitico. Il suo libro vuole informare sugli aspetti fortemente antiscientifici e del tutto convenzionali della dichiarazione di effettiva morte dell’assistito stabiliti in maniera interessata dal 1968 in poi. Ce ne spiega alcuni?

 Il mio libro è nato dalla convinzione, in me fortissima, che la maggior parte delle persone si trovi all’oscuro di cosa realmente sia il cosiddetto “morto cerebrale”. Non sappia, cioè, o non comprenda abbastanza, che esso sia un “qualcosa” molto differente da come siamo soliti rappresentarci un “normale” defunto. Questo “qualcosa”, infatti, è caldo e non gelido, ha cuore che batte, con relativo sangue circolante e polmoni respiranti (anche se, spesso, coadiuvati meccanicamente), può ammalarsi (prendersi un raffreddore, ad esempio) e anche guarire, può produrre liquido seminale fertile (se di sesso maschile), e può concepire e/o condurre a termine una gravidanza (se di sesso femminile), ecc …

Fino al 1968, un individuo in cui fosse stata riscontrata una condizione di inattività elettrocerebrale veniva considerato in stato di coma definito irreversibile (coma dépassé). Ovvero, un paziente in gravissime condizioni, destinato (molto probabilmente) ad avviarsi verso la cessazione definitiva della propria esistenza.  Fino a quella data, la tradizione medico-giuridica occidentale prevedeva l’accertamento della morte mediante riscontro oggettivo di tutte le funzioni vitali: respirazione, circolazione, attività del sistema nervoso, ma, nell’agosto del 1968, un Comitato costituito ad hoc dalla Harvard Medical School propose un nuovo criterio di accertamento della morte in presenza della condizione di “coma irreversibile”, ritenuto equivalente alla cessazione di tutte le funzioni cerebrali. Venne così coniata la definizione di “morte cerebrale”, oggi adottata dalla Medicina ufficiale in modo universalmente acritico, trasformando un’intera categoria di pazienti (vivi) in “morti cerebrali”, e, di conseguenza, i rispettivi corpi (vivi) in “cadaveri”.

La grande abilità (o astuzia) del Comitato di Harvard è stata quella di far passare per nuova definizione “scientifica” della morte quella che, in realtà, altro non era che una sua “ridefinizione stipulativa”, e quindi, come tale, arbitraria e convenzionale: nel Rapporto pubblicato, non incontriamo, infatti, alcuna argomentazione a sostegno della validità scientifica della tesi relativa all’equivalenza instaurata fra morte e coma irreversibile.

Le uniche argomentazioni addotte sono di natura utilitaristica: liberare posti-letto e rendere legalmente possibili i trapianti di organi (vivi!).

Questo, infatti, quanto pubblicamente dichiarato dal Comitato:

“Il nostro obiettivo principale è definire come nuovo criterio di morte il coma irreversibile. La necessità di una tale definizione è legata a due ragioni.

 1)Il miglioramento delle tecniche di rianimazione e di mantenimento in vita ha condotto a sforzi crescenti per salvare malati in condizioni disperate. A volte tali sforzi non ottengono che un successo parziale, e il risultato è un individuo il cui cuore continua a battere, ma il cui cervello è irrimediabilmente leso. Il peso è grande per quei pazienti che soffrono di una perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali e per quelli che avrebbero bisogno di letti ospedalieri occupati da questi pazienti in coma.

2) Criteri di morte obsoleti possono originare controversie nel reperimento di organi per i trapianti.” Il parlare di possibili “controversie” significa che i medici responsabili del prelievo di organi avrebbero potuto venire accusati di omicidio. Cosa, ovviamente, poco gradita.

Potremmo affermare che sia successo qualcosa di simile con l’imposizione del TSO “vaccinale” durante lo stato di emergenza Covid? Terapie geniche sperimentali sono state spacciate per vaccini bypassando così test di sicurezza, anni di sperimentazione e vincoli giuridici come la prescrizione individuale.

Direi che fra le due vicende si possano riscontrare non poche affinità:

innanzitutto, il forte tentativo degli apparati istituzionali (supportati fedelissimamente dalla grancassa mediatica) di esercitare il loro potere sul singolo cittadino, limitando e orientando la sua facoltà di giudizio autonomo ed espropriandolo del suo corpo, facendo leva, soprattutto, su propaganda martellante, censura delle informazioni e rifiuto di corretto dibattito scientifico.  Poi, la messa in atto di pressioni massicce per nobilitare un determinato punto di vista (altruista e responsabile) dichiarato dogmaticamente “scientifico”, delegittimando quello opposto, con l’accusa (mai adeguatamente provata) di essere egoista e “antiscientifico”.  Inoltre, la strategia fondata sull’ingannevole uso del linguaggio mirante a “modificare” la sostanza delle cose modificandone la definizione verbale e concettuale: lo stato di “coma irreversibile” che diventa “morte cerebrale”; lo squartamento di un organismo respirante e con cuore battente che diventa “donazione e prelievo di organi”;  sieri sperimentali privi delle più elementari garanzie a tutela del paziente che diventano salvifici “vaccini”;  i poveretti inoculati col siero misterioso che diventano “immunizzati”; coloro che osano esercitare filosoficamente e scientificamente  il dubbio e avvalersi del costituzionale diritto di libertà di cura che diventano  irrazionali “negazionisti”,  irresponsabili  e pericolosi “complottisti”; scelte come donare gli organi e farsi inoculare un siero protetto da segreto militare che vengono esaltate come  gesti sommamente intelligenti, responsabili e generosi, ecc.

Una questione filosofica ma carnalissima, viscerale, che si impone, è quella relativa al rapporto tra anima e corpo. Ci può dire di più?

Penso che l’unica strada perseguibile per evitare conflitti fra scienza e metafisica (o religione) sia quella indicata da Kant con la celebre distinzione fra fenomeno e noumeno. Ovvero, la scienza, con il suo metodo basato su “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni” (per dirla con Galileo) ci parli pure liberamente di quanto oggettivamente esaminabile, registrabile, misurabile, ma, nella consapevolezza dei suoi limiti, non tenti di oltrepassare la sfera del piano fenomenico, invadendo piani trascendenti che non le competono. Il che significa che la scienza non dovrebbe pretendere di dirmi con assoluta certezza che un individuo che, fenomenicamente parlando, secondo i propri (limitati) metodi e strumenti, risulta privo di attività cerebrale, sia oramai privo di ogni forma di coscienza, ovvero “interiormente” del tutto e irreversibilmente morto. Perché sul piano fenomenico, cioè della percezione empirica, esso appare “esteriormente” vivo, e perché della dimensione “interiore”, ovvero della “coscienza in sé” e della eventualità che possa esistere una qualcosa chiamata “anima” o “spirito” la scienza nulla sa e nulla può sapere.

Diceva Pascal (per contrastare gli atei del suo tempo che si ritenevano partigiani della ragione contro la fede) che non è affatto “perfettamente chiaro che l’anima sia materiale”, ovvero che la si possa identificare col corpo, negando, pertanto, la possibilità di una sua natura metafisica, e quindi la possibilità di sfuggire alla percezione fenomenica. Detto in altre parole: la scienza sa pochissimo del mio cervello, e arcinulla della mia “anima”, di cui non è chiamata ad occuparsi. Ma non ha il diritto di escludere che essa possa esistere su piani dimensionali a lei preclusi. Per cui, come potrebbe escludere che ci sia ancora un’anima viva e attiva, all’interno di un corpo che, tranne determinate funzioni cerebrali (ma non tutte!), risulta ancora fenomenicamente vivo?

Lei denuncia anche il silenzio della Chiesa cattolica su questa pratica, che rischia di far entrare l’umano nella sfera delle cose, degli inanimati; la Santa Sede di solito così attenta ad evitare eutanasie e così sensibile alla tutela dell’inizio della vita è poi incredibilmente superficiale o colpevolmente latitante sul tema della trapiantistica in vivo.

Trovo che la convergenza fra la posizione dominante nel mondo cattolico e quella dominante in ambito scientifico sia particolarmente sconcertante e inquietante. Perché se è doloroso ed irritante constatare che la scienza interpreti ancora la vita e la natura umane in modo materialistico e meccanicistico, è incredibilmente vergognoso e inaccettabile che lo faccia anche la Chiesa, rinunciando a qualsiasi autonomo diritto alla problematizzazione e, soprattutto, mettendo totalmente in soffitta ogni pensiero e ogni preoccupazione relativi all’esistenza dell’anima e al suo rapporto con il corpo. E dimenticando che  suo irrinunciabile dovere è quello di confortare, assistere i morenti, e agevolare il loro trapasso, operando con tutti i mezzi ministeriali e sacramentali in vista della salvezza delle anime, non certo quello di lasciare carta bianca ai medici trapiantatori, con il rischio assai concreto di accelerare violentemente il processo (chissà quanto lento e travagliato!) del distacco dell’anima dal corpo.

Tengo a precisare, comunque, che all’interno del mondo cattolico, convivono posizioni molto differenti. Non pochi eminenti teologi, filosofi e scienziati cattolici  (a cui ho cercato di conferire ampio spazio) sono fermamente contrari alla “morte cerebrale”. Lo stesso Ratzinger, nel 1991, arrivò a pronunciare parole terribili: “… quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma irreversibile, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica (cadaveri caldi)."

La pratica della trapiantistica eseguita su persone non-morte, si lega senza forzature alla mercificazione di neonati, così nobilitata dall’espressione gestazione per altri. “Non posso ridurre a grande magazzino vivente di organi espiantabili, per il bene di altri” lei scrive, nel caso della gestazione per altri potremmo parafrasare: “Non posso ridurre una donna e madre a fattrice su commissione con cataloghi commerciali”.

Ritengo che, in entrambi i casi, pur così apparentemente lontani, ci troviamo di fronte a quelli che Marx chiamerebbe fenomeni di “reificazione” e Kant fenomeni di riduzione della persona umana a semplice “mezzo” in vista di un determinato fine. In entrambi i casi, infatti, entra in gioco pesantemente una visione delle cose in cui una logica di tipo utilitaristico finisce per violare gravemente l’intima dignità della persona umana, l’unica cosa su cui poter fondare un’etica universale autenticamente rispettosa dei diritti umani.

Lei ha una propria posizione, non ritiene la morte cerebrale una definitiva morte, ma non impone questa visione: lo scopo del suo libro è instillare il dovere del dubbio, cosa questa in pieno accordo con il primo principio del Giuramento di Ippocrate, ossia, in caso di dilemmi sulla terapia, innanzitutto non nuocere.

Sì, esatto. Lo scopo principale del mio libro è quello di permettere al lettore di farsi una propria opinione, costruita non su slogan propagandistici o narrazioni faziose, ma su una ricca rosa di informazioni, differenti punti di vista, riflessioni e discussioni critiche, messi a confronto fra di loro. Insomma, ho cercato di guardare oltre il velo delle apparenze, e ho cercato di offrire al lettore desideroso di verità, qualche conoscenza e qualche chiave di lettura utili per poi operare una propria scelta ben documentata e ben ponderata, invitandolo a porsi uno scomodo quanto cruciale dilemma: meglio rischiare di trattare come vivo un morto, oppure rischiare di trattare come morto un vivo?

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