Domenica, 06 Luglio 2025 09:07

La plutocrazia come destino delle democrazie occidentali In evidenza

Scritto da Prof. Daniele Trabucco
L'Aja, 25/06/2025 - Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con il Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, ed il Primo Ministro dei Paesi Bassi, Dick Schoof L'Aja, 25/06/2025 - Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con il Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, ed il Primo Ministro dei Paesi Bassi, Dick Schoof Presidenza del Consiglio dei Ministri concessa con licenza licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

Di Daniele Trabucco Belluno, 6 luglio 2025 - La democrazia occidentale, quale forma di Governo che pretende di incarnare il principio della sovranità popolare, si è nel tempo tradotta in una parodia della sua stessa essenza, fino a trasfigurarsi in ciò che è, in realtà, la sua antitesi strutturale: la plutocrazia, ossia il dominio del denaro e di coloro che lo detengono.

Tale esito non è il frutto di una patologia accidentale del sistema, bensì l’effetto necessario e interno a una concezione immanente e storicistica dell’ordine politico, divenuto incapace di trascendere il piano della volontà individuale per radicarsi in un’idea oggettiva di giustizia.

La crisi delle democrazie moderne è, in verità, l’epilogo di un processo filosofico di lunga durata, che affonda le sue radici nella dissoluzione dell’"ordo naturalis" e nell’adozione di un paradigma antropologico fondato sull’autonomia assoluta del soggetto (così Cornelio Fabro). Finché la politica fu compresa, in senso aristotelico e tomista, come l’arte ordinativa della vita comunitaria al bene comune, essa non poté che porsi in rapporto di subordinazione all’etica e alla metafisica. La città giusta era quella in cui ciascuna parte occupava il posto ad essa spettante in base alla propria natura e funzione, in un ordine gerarchico non arbitrario, ma fondato sulla legge naturale e sull’intrinseca finalità dell’uomo alla vita buona e virtuosa. In questa prospettiva, il potere politico non era mera procedura o tecnica della decisione, bensì forma sostanziale di rettitudine, ordinata alla verità e al bene.

Tuttavia, con la modernità, e più ancora con la secolarizzazione dell’immanentismo politico postilluminista, l’essere ha ceduto il passo al volere, la natura alla libertà indifferente, la giustizia alla legalità formale. Il potere ha cessato di essere funzione dell’ordine per diventare espressione della volontà generale o dell’aggregazione numerica di opinioni. Questa rivoluzione teorica ha prodotto una scissione insanabile tra democrazia come forma e democrazia come contenuto. Una volta estromesso il fondamento oggettivo e naturale della sovranità (rectius: della regalità), che in ultima istanza risiede in Dio come fonte del diritto, ogni decisione collettiva è stata relativizzata a esito contingente di procedure maggioritarie o contrattualistiche e il popolo è stato ridotto da comunità ontologicamente determinata a massa di individui astratti (Ortega Y Gasset). In tale contesto, la democrazia non ha potuto più significare il governo del popolo in quanto principio ordinatore del bene comune, ma solo il governo attraverso il popolo, cioè mediante la sua manipolazione, cooptazione, mobilitazione.

E qui si innesta il dominio della ricchezza.

Nel vuoto lasciato dalla verità, il denaro si è imposto come principio strutturante della politica. Il capitale, in quanto realtà al contempo simbolica e concreta, ha assunto il ruolo di legislatore occulto delle scelte collettive, in quanto unico elemento in grado di aggregare, orientare, penetrare e dirigere le volontà individuali in un orizzonte privo di fini ultimi condivisi.

La plutocrazia non è, dunque, un accidente, quanto la forma in cui la democrazia moderna, privata della sua finalità teleologica e privata della sua radice metafisica, si consegna inevitabilmente alla sovranità anonima del denaro. L’ethos del consumatore ha soppiantato quello del cittadino; l’algoritmo della finanza ha preso il posto della deliberazione razionale che dovrebbe fondarsi sull'ordine naturale; il potere si è trasferito dai Parlamenti ai mercati, dalle piazze ai consigli d’amministrazione, dai Tribunali alle agenzie di rating.

La trasformazione giuridica ne è solo l’aspetto esteriore. Le Costituzioni, nate con la credenza erronea di delimitare l’esercizio del potere in nome della persona e della sua dignità, si sono lentamente ridotte a strumenti di gestione economica, piegate alla razionalità strumentale del profitto e alla neutralizzazione del conflitto.

La sovranità popolare è diventata una formula liturgica, evocata in cerimonie elettorali sempre più svuotate di significato. Il diritto, un tempo ordinamento razionale della giustizia, si è fatto tecnicismo normativo, subordinato alla fluttuazione dei mercati e agli imperativi dell’equilibrio finanziario. Ciò che oggi si celebra come "governo dei migliori" o "competenza tecnica" è, in realtà, l’avvento della post-politica, ossia del dominio impersonale dell’efficienza su ogni istanza di verità e giustizia. Tuttavia, la legge naturale non si lascia abolire. Essa sopravvive come rimorso nella coscienza, come nostalgia dell’ordine e come protesta del "logos" contro la sofistica del potere.

Per questo, il destino delle democrazie plutocratiche è segnato da una doppia possibilità: la definitiva implosione in un totalitarismo morbido, dove la libertà sopravvive come illusione di scelta in un mondo integralmente programmato dal denaro, oppure una rinascita dall’alto, cioè il ritorno all’idea che la politica non può prescindere dalla verità dell’uomo e dalla sua apertura trascendente.

Solo un rinnovato riconoscimento della legge naturale, di un ordine morale oggettivo e di una gerarchia dei fini potrà redimere la democrazia dalla sua degenerazione plutocratica. In mancanza di questo fondamento, ogni appello alla "partecipazione", alla "trasparenza", alla "inclusività" non è che linguaggio orwelliano al servizio di un’oligarchia globale, che dissimula sotto le vesti della libertà l’effettivo governo dei pochi.

E come già ammoniva Aristotele, quando la ricchezza diviene criterio del potere, la polis è già morta: resta solo l’apparenza di una convivenza, svuotata della sua forma razionale e sottomessa alla tirannide delle passioni e del calcolo. La democrazia ha tradito sé stessa proprio là dove ha voluto prescindere dalla verità per affidarsi alla procedura, là dove ha negato la legge morale per idolatrare la volontà soggettiva, là dove ha abbandonato l’idea del bene comune per rifugiarsi nella neutralità del mercato.

(*) Autore

Daniele Trabucco

Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario "san Domenico" di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.

Sito web personale

www.danieletrabucco.it

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