Mercoledì, 11 Gennaio 2023 06:32

La violenza di Al-Shabaab non si arresta. In evidenza

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L’organizzazione estremista non smette di lanciare sanguinosi attacchi nella Somalia centrale e meridionale. Recentemente, infatti, il gruppo ha rivendicato il duplice attentato registrato mercoledì 4 gennaio 2023, presso il distretto di Mahaas, regione di Hiran. L’ufficio stampa di Al-Shabaab ha, inoltre, dichiarato di aver preso di mira milizie e soldati apostati. Numerose persone sono state dichiarate morte a seguito dell’attacco.

Di Flavia De Michetti Roma, 10 gennaio 2023 (Quotidianoweb.it) - L’organizzazione terrorista continua ad attaccare la Somalia centrale e meridionale, nonostante le truppe governative, con il supporto delle Forze dell’Unione africana e dalle milizie locali abbiano riconquistato diverse località che, prima, erano nelle mani delle milizie jihadiste. L’ultima riconquista è riferita a quella della città di Masagawa, nella regione centrale di Galgudud, che Al-Shabaab controllava da circa 15 anni.

Il Continente africano è da sempre vittima di tragedie e storie sanguinose relative alle sopraffazioni di popoli. Quali sono le radici alla base della ferocia e disumanità di queste violenze? Proviamo a rispondere ripercorrendo uno dei più gravi eventi della storia dell’Africa.

Dal 6 aprile al 16 luglio 1994 si compie in Ruanda il genocidio veloce e sistematico dei Tutsi e degli Hutu moderati, da parte dell'esercito regolare e degli interahamwe, milizie paramilitari.

Il motivo sarebbe stato l'odio razziale verso la minoranza Tutsi, che aveva costituito in passato l'élite sociale e culturale del Paese. In cento giorni le stime riportate sono state circa un milione di morti, 2 milioni di rifugiati fuori dai confini del Ruanda e un milione e mezzo di profughi interni.

Un genocidio che ancora oggi viene ricordato dai sopravvissuti con profondo dolore. A sopravvivere sono stati principalmente i profughi che, in poche ore, si sono riuniti ai confini del Paese, in particolare con l’Uganda. È stato definito come un vero e proprio fallimento della politica internazionale che, insieme alle Nazioni Unite, non ha fornito la giusta protezione alla popolazione in occasione dei disastrosi eventi che si stavano verificando in quel momento.

In un Rapporto delle Nazioni Unite del 1999 è stata ampiamente riconosciuta la mancanza di intervento della comunità internazionale e il ruolo controverso e dibattuto a lungo, ancora oggi, dell’allora Presidente francese François Mitterrand. Un contesto post-coloniale che ha subito le conseguenze delle invasioni.

È necessario approfondire queste ultime per comprendere meglio le motivazioni della strage.

A partire dal 1895, il Ruanda diviene una delle colonie che andavano a comporre l’Africa orientale tedesca. Tuttavia, alla fine della Seconda Guerra Mondiale e in seguito alla disfatta della Germania, quest’ultima viene sostituita nei territori africani dal Belgio che accorpa in un unico territorio coloniale il Ruanda e il Burundi.

In origine, questi territori erano abitati da tre gruppi etnici in particolare, che spesso sono stati definiti come categorie sociali: l’1% della popolazione è costituito dai Twa, i primi abitanti di questi territori, cacciatori e raccoglitori, il 14% dai Tutsi, un gruppo di pastori guerrieri che si è insediato nel Paese a partire dal 1300, proveniente dal Corno d’Africa e, infine, l’85% è costituito dal popolo di agricoltori degli Hutu, proveniente probabilmente dal Camerun.

Soprattutto gli ultimi due gruppi etnici convivevano in maniera armonica, parlando la stessa lingua, condividendo sostanzialmente le stesse usanze.

Purtroppo, la situazione prende una piega poco positiva. I nuovi colonizzatori, infatti, prendono la società ruandese, ne scorporano le classi sociali e le suddividono nuovamente in gruppi, tutto ciò tenendo conto dei tratti somatici, ponendo in cima alla struttura sociale i Tutsi, di corporatura imponente ed economicamente ben sviluppati e considerati, dunque, dagli europei come intelligenti e affidabili.

Una categorizzazione, dunque, che va a modificare quelli che erano gli equilibri sociali preesistenti tra questi popoli. La divisione netta tra le due etnie è stata ufficializzata intorno agli anni Trenta, con l’introduzione di vere e proprie carte d’identità. Nonostante ciò, i coloni faticavano ancora a distinguere le varie categorie e l’appartenenza a un gruppo o all’altro era stabilita secondo parametri assolutamente casuali, come ad esempio il numero delle mucche che si possedevano (per essere Tutsi bisognava possedere 10 mucche) e queste modalità sono rimaste in vigore per circa 60 anni.

La Chiesa ha avuto un ruolo importante in questo triste scenario, ma non in senso positivo. I missionari d’Africa hanno importato nel Paese una parte di queste concezioni razziste fondate su ideologie camitiche, indottrinando intere generazioni di bambini. Sono, dunque, stati responsabili del fenomeno dell’etnogenesi, ovvero la creazione di rigide identità etniche allo scopo di perseguire i propri interessi politici.

Si crea una struttura piramidale. Il vertice di questa gerarchia era occupato dai Bazungu (i “bianchi”), nel mezzo si trovano gli intermediari, che consistono in un ristretto gruppo di Tutsi, infine, tutto il resto della popolazione.

Alla fine della colonizzazione, l’indipendenza del Ruanda è stata dettata, a differenza degli altri Paesi africani, dallo sdegno nei confronti, non dei coloni europei, ma in quelli dei Tutsi privilegiati. L’indipendenza formale (con distaccamento dal Burundi) avviene nel 1962.

L’identità etnica comincia a cristallizzarsi anche in senso politico.

Con Gregoire Kayibanda, un seminarista cattolico, si era formato il partito Parmehutu e trova un nemico comune per distogliere i malumori, ovvero i Tutsi. Nasce, dunque una fase di tensione tra gli Hutu e i Tutsi. Nel marzo 1957 venne firmato il manifesto del Bahutu, nel quale gli Hutu avanzavano alcune rivendicazioni, tra le quali, smettere di definire i Tutsi come superiori. Gli Hutu, in particolare, procedevano in maniera mirata e calcolata nei confronti dei Tutsi, andando a colpire gli esponenti più influenti, i quali fuggirono negli Stati vicini. Si tratta della prima ondata di profughi.

Molti rifugiati Tutsi decidono di non rimanere fermi a subire e reagiscono in maniera attiva, trasformandosi in soldati. Nei primi anni Sessanta, dunque, si riuniscono in vari commando per fare incursioni in Ruanda contro gli Hutu.

In questo modo, tutti i Tutsi sono stati considerati invasori stranieri, che non si sono resi certamente più affabili con l’eccidio degli Hutu nel 1972 da parte dei Tutsi nel Burundi, il quale aveva ottenuto l’Indipendenza il primo luglio 1952 e la sua componente sociale era più o meno simile a quella del Ruanda (85% Hutu e 15% Tutsi).

Le personalità influenti del nord cominciano a non tollerare più il potere esercitato da Gregoire Kayibanda, che viene prontamente arrestato e sostituito da un generale dell’Esercito ruandese, Juvenal Habyarimana, il quale rimane al potere per circa 21 anni, promettendo un ritorno all’ordine e all’unità nazionale con il suo partito, il Movimento Repubblicano Nazionale per la Democrazia e lo Sviluppo.

Il suo è un governo basato sulla dittatura militare, che punta a una condizione di stabilità e sviluppo economico, portando il Ruanda ad essere definito “la Svizzera dell’Africa”, per mezzo, però di un duro sistema repressivo, con uccisioni, torture e sparizioni.

Tuttavia, qualche effetto positivo si è verificato, come la cessazione delle ostilità ai confini e all’interno del Paese, dimostrando che Hutu e Tutsi potevano vivere insieme e in armonia e, per questi ultimi, si apre un periodo di serenità e benessere.

L’economia del Ruanda si è sempre basata principalmente su caffè, tè e stagno, ma non diversificandosi e rimanendo concentrata su poche opzioni, nel 1989 questa comincia a crollare tragicamente, facendo cadere il Paese nella miseria e in una profonda crisi economica.

Tutto questo conduce a forte malessere della popolazione. Habyarimana è, dunque, costretto ad accettare l’intervento Fondo Monetario Internazionale della Banca Mondiale, scendendo però a condizioni molto dure da ripagare. Tra queste, la svalutazione del franco olandese. A questo punto l’80% della popolazione ruandese vive al di sotto della soglia di povertà e questo porta molte famiglie a non potersi più permettere di comprare il cibo necessario.

Alla fine degli anni Ottanta, i terreni di tè e caffè vengono tutti accumulati nelle mani di un numero limitato di latifondisti, a discapito dei poveri coltivatori che sono costretti a svendere i propri campi. Tutto ciò non fa che destabilizzare ulteriormente il Paese. Nel 1990 in particolare i giovani Hutu si trovano nella miseria totale e senza prospettive. La profonda povertà porta questi ultimi a trasformarsi in uomini senza scrupoli.

Il potere, che all’inizio era stato nelle mani degli Hutu del Nord, si trova ora in quelle di un piccolo gruppo del Nord-Ovest, una specie di mafia, nota con il nome di “Akazu”, che vive nel lusso mentre la popolazione muore di fame. Questa organizzazione dirotta il flusso dei fondi della Banca Mondiale, servendosene per importare articoli di lusso, che vengono poi venduti con prezzi alle stelle. Ormai la popolazione prova dei sentimenti estremamente ostili nei confronti di questo regime dittatoriale.

Nell’aprile del 1994 viene attaccato il Presidente Juvenal Habyarimana, di ritorno da un vertice di Capi di Stato in Tanzania.

Il suo aereo, in fase di atterraggio, viene colpito da un missile, senza lasciare superstiti. Nella notte tra il 6 e il 7 aprile dello stesso mese le milizie estremiste hutu iniziano a perseguitare i Tutsi.

Da questo momento, per i 100 giorni successivi, si consuma uno dei genocidi più spietati nella storia dell’umanità che tutti oggi conosciamo. Una violenza che assume una simbologia molto particolare, legata all’identità etnica imposta nella colonizzazione. Mutilazioni, cadaveri gettati nei fiumi e altre tragiche pratiche.

Questo disumano evento non è sicuramente riconducibile esclusivamente alla colonizzazione, ma dividendo tre componenti sociali, che invece si definivano in origine un unico popolo, è senz’altro una delle importanti cause.

Oggi, il Ruanda è stato ricostruito e ha assunto l’aspetto di un paese moderno. Tuttavia, si tratta di uno Stato con profondi traumi.

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(Palazzo di un Capo Tutsi)