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Giovedì, 08 Luglio 2021 06:48

"Homo Sacer", tra potere sovrano e "Nuda Vita" In evidenza

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Il lavoro di Giorgio Agamben intitolato “Homo sacer”, ruota attorno al rapporto tra potere sovrano e “nuda vita” e rappresenta una perfetta chiave di lettura per la realtà giuridica contemporanea.

di Carlo Alberto Correale Treviso, 7 luglio 2021 - Ciò che rende immortale il suo lavoro, infatti, è anche il nodo centrale della sua opera, ovvero il rapporto inscindibile tra eccezione e regola nell’ambito della sovranità moderna. Questo concetto affonda le sue radici nell’idea che la sovranità moderna, cioè quella dello Stato moderno che noi tutti conosciamo, si pone al di fuori dell’ordinamento. Per usare le parole di Carl Schmitt “il sovrano sta al di fuori dell’ordinamento giuridico e appartiene allo stesso tempo ad esso”.

Ma in che senso lo Stato, cioè il sovrano, si pone al di fuori dell’ordinamento? È palese che le norme che reggono il nostro ordinamento si fondano - cioè vengono emanate - da un sovrano che impone queste regole e che, per il fatto stesso di porle in essere, si situa al di fuori delle regole stesse. 

E allora perché Schmitt diceva che, al tempo stesso, il sovrano appartiene all’ordinamento? Perché spetta sempre a lui decidere quando e a quali condizioni la costituzione - intesa in senso lato - possa essere sospesa. 

Come si inserisce, in questo contesto, il concetto di “nuda vita”? Per definirlo, bisogna fare un passo indietro e guardare al concetto di homo sacer, uomo “sacro”, così come inteso dagli antichi Romani. L’homo sacer era colui che si era macchiato di uno specifico delitto, per esempio contro una divinità ritenuta inviolabile per il quieto vivere dei consociati ed avesse peccato di ubris, ossia di tracotanza, verso questa divinità. Quest’uomo viveva in uno stato particolarissimo: si poneva, infatti, contemporaneamente al di fuori e all’interno dell’ordinamento giuridico. Si poneva al di fuori di esso perché si era macchiato di un grave delitto; si poneva all’interno di esso perché la legge prevedeva l’impunibilità per chi lo avesse ucciso. 

Ed ecco che qui torna il concetto di “nuda vita”: quest’uomo è considerato da Agamben quale “nuda vita”, una vita liberamente uccidibile. Questa idea torna utile - nel ragionamento del filosofo - parlando del potere moderno, per il quale siamo tutti nuda vita, siamo tutti uccidibili, dentro e contemporaneamente fuori dall’ordinamento.

Ed è così che il filosofo riconduce il suo pensiero sulla nuda vita alla società contemporanea, ed in particolare, in una riflessione del marzo 2020, intitolata “Chiarimenti”, afferma che la nuda vita non è qualcosa che unisce gli uomini, ma qualcosa che “li separa, che li acceca”. Secondo Agamben, infatti, la nostra società non crede più a nulla se non alla nuda vita. Non crede, cioè, più ai rapporti sociali, al lavoro, alle amicizie, agli affetti. Dice che l’uomo contemporaneo è disposto a sacrificarli pur di non perdere la nuda vita. In pratica, si sta delineando una società totalmente anaffettiva.

Questa (imposta) perdita degli affetti e delle relazioni interpersonali ha causato anche uno squilibrio nell’ambito di quanto previsto dalla nostra Carta costituzionale: in pratica, si può dire che una società anaffettiva nuoccia gravemente alla salute della Costituzione. Per affermare questo basta leggere alcuni articoli contenuti nei “Principi fondamentali” della nostra Costituzione.

L’articolo 2, per fare un esempio, afferma che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali. Ma come si può ritenere rispettato tale principio fondamentale (e quindi ritenere che sia stata rispettata la inviolabilità di tali diritti) in presenza di una società anaffettiva come quella profilata da Agamben? In presenza di una società totalmente priva di alcuna socialità, vista come un rischio, invece che come una grandiosa opportunità di crescita, morale, culturale e spirituale?

L’art. 4, infatti, parla addirittura di dovere (quindi, non di diritto, ma di un vero e proprio dovere) per il cittadino di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Ma come è possibile immaginare di adempiere a tale dovere in una società anaffettiva, cioè senza alcun rapporto umano?

Se volessimo fare un riferimento anche un po’ romantico all’antica Grecia, potremmo pensare ai giochi olimpici, nati con lo scopo - così ci racconta il mito - di promuovere la pace. Nell’VIII secolo a.C., infatti, al fine di agevolare l’arrivo degli atleti e degli spettatori, il re Ifito impose per la prima volta la c.d. pace olimpica, una sorta di tregua sacra che, pur essendo stata più volte violata, è rimasta intatta nel suo spirito essenziale fino a noi. Ebbene, è proprio l’art. 11 a voler tutelare la pace e la giustizia fra le Nazioni. Come si potrebbe, effettivamente, promuovere la pace in un mondo senza socialità, senza sport, senza interazione umana?

Questo concetto di tutela della nuda vita a tutti i costi (si badi, si sta parlando della tutela della nuda vita soltanto), intesa come tutela massima, assoluta (inteso in senso latino, ab-soluta), senza alcun contrappeso, ha permeato e tuttora permea tutto il diritto. Tutto è stato, durante questa pandemia, sospeso. Tutti i diritti sono stati sospesi: dal diritto alla libera circolazione - forse la restrizione più odiosa da sopportare - passando per il diritto di libera iniziativa economica, fino ai più basilari diritti di riunione e di istruzione.

Ma l’aspetto più delicato della questione è - come sottolineato da Agamben stesso - dato dal fatto che lo stato di eccezione è diventato la condizione normale. In pratica, la sospensione di questi diritti, analizzando la questione da un punto di vista strettamente giuridico, non solo è diventata la normalità per i consociati, che, in maniera anche piuttosto supina, hanno accettato la perdita di ogni dimensione sociale, politica, umana ed affettiva. Ma è diventata la normalità anche per l’ordinamento che, in barba agli strumenti ordinariamente riconosciuti dalla nostra Costituzione per fronteggiare una situazione emergenziale (come per esempio i decreti-legge) ha visto sospendere tutte le garanzie costituzionali. 

Farò un esempio di questo stato di eccezione in cui ci siamo trovati per quasi un anno: lo strumento del d.P.C.M.

Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri è stato largamente utilizzato durante il governo Conte-bis e anche durante le prime settimane dell’attuale Esecutivo. Moltissimi giuristi, decisamente più eminenti di me - da Cassese a Baldassarre per citarne alcuni - hanno sostenuto che l’utilizzo di strumento giuridico, ripeto, del tutto inusuale per fronteggiare una situazione emergenziale, potrebbe aver creato un pericoloso precedente. E questo perché? Perché, utilizzando i dd.P.C.M., si è fatto ricorso a strumenti del tutto privi di dialettica parlamentare, quindi privi delle garanzie costituzionali che garantiscono che si eviti la c.d. tirannia della maggioranza sulla minoranza. Il d.P.C.M., infatti, è stata (e tuttora rappresenta) la maggiore espressione del c.d. stato di eccezione riportato da Agamben, in quanto, non solo manca la dialettica parlamentare a suo fondamento, ma è addirittura espressione della volontà di un singolo, il Presidente del Consiglio dei Ministri appunto, senza alcun altro contrappeso, volontà, la sua, incidente su temi e libertà fondamentali, limitabili solo con atti parlamentari o che comunque prevedano un controllo parlamentare (a monte od a valle).

Questo così complesso quadro ha portato Agamben, in una riflessione datata luglio 2020 ed intitolata “Stato di eccezione e stato di emergenza”, ad affermare - correttamente fra l’altro - che nel diritto non ha alcun fondamento affermare che vi sia una distinzione tra stato di emergenza e stato di eccezione, perché nessuna Costituzione può prevedere “il suo legittimo sovvertimento”. È per questo che la distinzione non ha ragion d’essere, perché non è possibile specificare preventivamente quali siano i poteri straordinari riconoscibili ad una persona od ad un gruppo di persone in ragione di una emergenza. Per questo, tra stato di eccezione e stato di emergenza non ci sarebbe alcuna differenza.

Qualcuno potrebbe obiettare che all’interno della nostra Carta costituzionale esiste lo stato di guerra, ma non farebbe altro che rafforzare la tesi di Agamben, prevedendo la Costituzione, all’art. 78, che, deliberato lo stato di guerra, le Camere attribuiscano al governo i “poteri” a tal fine “necessari”, dunque, per questo, non meglio specificati preventivamente.

Ed accettare che possa essere una legge, anche la più condivisa a livello parlamentare, a definire quando i nostri diritti e le nostre libertà possano essere compresse da un atto non avente forza di legge, quale, per l’appunto, un d.P.C.M. o un decreto-ministeriale, risulta essere un ribaltamento completo della gerarchia delle fonti, risulta essere un permettere alle fonti di diritto di disporre della loro stessa efficacia che, per riprendere le parole di un grande giurista quale Vezio Crisafulli, porterebbe “i diritti e le libertà a non garantire più nulla, in quanto non potrebbero vincolare la legislazione”.

 

Autore: Carlo Alberto Correale, dottore in Giurisprudenza

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