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Tutelare le foreste e la biodiversità vuol dire salvare la Terra In evidenza

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L’importanza del raggiungimento dell’Obiettivo 15 dell’Agenda 2030

Di Coopservice  11 Marzo 2021

Foreste, territorio, biodiversità: i 3 pilastri degli ecosistemi terrestri

Metterci alle spalle il modello lineare produzione-consumo-smaltimento che rischia di condurci all’autodistruzione, praticando lo schema alternativo dell’economia circolare e, contestualmente, adoperarsi per la protezione e il ripristino delle risorse naturali del Pianeta, nostre principali alleate contro il climate change. Così come lObiettivo 14 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite si focalizza sulla tutela dell’ambiente marino, il tema della salvaguardia degli ecosistemi viene completato dal Goal successivo: “Utilizzare in modo sostenibile le risorse terrestri, proteggendo la biodiversità”. Sono tre i fattori che vengono presi in considerazione, essendo comprensivi di tutti gli elementi dotati di vita (biotici) e inanimati (abiotici) degli ecosistemi terrestri: foreste, territorio e biodiversità. Se infatti il mondo vegetale e animale costituisce la componente biotica degli ecosistemi, l’insieme luce-terra-rocce-acqua-aria-fattori climatici rappresenta la dimensione abiotica dell’habitat che rende possibile la vita umana.

Le foreste, polmone verde della Terra

In natura i fattori biotici e abiotici sono uniti da complessi legami fondati su delicati equilibri minacciati dall’azione distruttiva del nostro modello di sviluppo. Ecco perché l’Obiettivo 15 si propone di conservare e utilizzare in modo sostenibile le foreste, fermare la desertificazione e il degrado del territorio, salvaguardare la biodiversità. Analizziamo ad uno ad uno questi elementi. Le foreste e le aree boschive coprono complessivamente una superficie di circa 4 miliardi di ettari, quasi il 31% delle terre emerse. Ad esse dobbiamo l’esistenza delle condizioni essenziali di vita: grazie alla fotosintesi clorofilliana rappresentano i più grandi serbatoi di accumulo di carbonio e rilasciano la metà dell’ossigeno che respiriamo (il cosiddetto polmone verde della Terra, che opera in perfetta sinergia con il polmone blu degli oceani). Le foreste costituiscono l’habitat di oltre l’80% di tutte le specie viventi terrestri e circa 1,6 miliardi di persone ne dipendono per il proprio sostentamento. Un patrimonio inestimabile sempre più a rischio: tra il 2000 e il 2015 l’area forestale della Terra è diminuita dal 31,1% al 30,7% con una perdita di 58 milioni di ettari, più o meno la superficie di una nazione come il Kenia. Numeri impressionanti, determinati prevalentemente dalla trasformazione di aree forestali in terreni a uso agricolo, che però ad uno sguardo più attento segnano una prima inversione di tendenza: nell’ultimo decennio del ‘900 infatti la deforestazione aveva proceduto ad un ritmo più che doppio, con 8,3 milioni di ettari annualmente distrutti, in particolare nelle aree tropicali di America Latina e Africa. Si tratta di perdite che, a livello globale, sono state però parzialmente compensate da un aumento delle terre boscose in estese zone dell’Asia (con il positivo esempio della Cina e la grave eccezione dell’Indonesia), dell’Europa e del Nord America, grazie ad attività di rimboschimento attivo e restauro del paesaggio: ciò ha reso possibile che il tasso annuo di perdita delle foreste dal 2010 al 2015 sia stato di circa il 25% più basso rispetto al periodo 2000-2005. 

TAB 1

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Sulla sinistra proporzione grafica dell’estensione delle foreste nei 10 Paesi che rappresentano i due terzi dell’estensione forestale globale. Sulla destra andamento grafico dell’aumento o della decrescita della deforestazione negli stessi Paesi tra il 1990 e il 2015: come si nota, tra di essi solamente la Cina ha visto crescere significativamente la superficie verde. (Fonte: The World Bank, SDG Atlas 2018; tabella riportata dal blog DeA Live Geografia)

Deforestazione, desertificazione, urbanizzazione delle terre: la distruzione del suolo

Ma purtroppo ancora maggiori in termini quantitativi sono i danni causati da fenomeni quali la siccità e la desertificazione. Si calcola che vengano persi ogni anno 12 milioni di ettari (23 ettari al minuto) di terreni, una quantità che potenzialmente avrebbe potuto, ad esempio, essere destinata alla coltivazione di 20 milioni di tonnellate di cereali. Non si tratta, quest’ultimo, di un riferimento casuale poiché il deterioramento dei suoli incide pesantemente sul raggiungimento di altri Obiettivi dell’Agenda 2030, quali la lotta alla fame e il superamento delle situazioni di povertà. Come sempre succede sono infatti i più fragili a pagare per primi il conto di azioni sbagliate: si stima che il 74% dei poveri nel mondo sia direttamente colpito dal degrado dei terreni e che tale fenomeno, a partire dal 2008, abbia complessivamente impattato sulle condizioni di 1,5 miliardi di persone. Del resto se è vero che 2,6 miliardi di individui dipendono direttamente dall’agricoltura, va rimarcato come oggi il 52% del terreno utilizzato per le coltivazioni risulti affetto da processi di degrado e deterioramento, causando il crescente impoverimento di una buona parte della popolazione mondiale. Fenomeni di matrice umana quali la desertificazione, la deforestazione, la gestione impropria del suolo, l’urbanizzazione e l’impermeabilizzazione delle terre coltivate finiscono così per abbassare drasticamente quello che viene denominato ‘indice di produttività del suolo’, riducendo contestualmente anche la sua capacità di assorbire carbonio in tal modo destinato, secondo il classico schema del circolo vizioso, ad aggravare l’effetto serra e quindi il global warming–climate change.

Si scrive ‘biodiversità’, si legge ‘vita sulla Terra’

Tutte queste problematiche trovano poi compendio nella questione generale della tutela della biodiversità, intesa quale sconfinata varietà di piante, animali, funghi e microorganismi che caratterizzano il nostro Pianeta. Solo i numeri danno un’idea dell’immensa ricchezza di forme viventi che ci circonda: fino a oggi sono state complessivamente descritte oltre 1 milione e 700 mila specie, ma in realtà siamo solo all’inizio del lavoro di mappatura genetica e si ipotizza che ne possano esistere come minimo oltre 12 milioni. Secondo gli ultimi dati raccolti dal WWF le specie animali censite sono circa 1,3 milioni, di cui più di 1,2 milioni invertebrati e 52.500 vertebrati (2.500 pesci, 9.800 uccelli, 8.000 rettili, 4.960 anfibi, 4.640 mammiferi). E poi 10.000 specie di batteri, 72.000 specie di funghi, 50.000 specie di protisti, 270.000 specie di piante. Una molteplicità di specie e organismi che, in relazione tra loro, creano un equilibrio fondamentale per la vita sulla Terra. L’abuso dello sfruttamento e del consumo delle risorse naturali insieme all’inquinamento e al cambiamento climatico stanno minando alla base questo patrimonio riducendo così la complessità (e quindi la ricchezza) degli ecosistemi. Solo per restare al mondo animale sul totale delle specie conosciute circa l’8% si è estinto e il 22% è a rischio di estinzione: si tratta di un dato che è peggiorato di quasi il 10% negli ultimi 25 anni.  Una tendenza che ci ricorda che la biodiversità sta diminuendo più rapidamente che in qualsiasi altro momento della storia umana mettendo seriamente a rischio il cosiddetto Capitale Naturale, inteso quale intero stock di beni naturali – organismi viventi, aria, acqua, suolo e risorse geologiche – che sono necessari per la sopravvivenza dell’ambiente. Non tutto però è ancora perduto perché la natura del nostro Pianeta ha una caratteristica unica: la capacità di rigenerarsi e adattarsi ai cambiamenti. Riducendo il nostro impatto sulla Terra, gestendo al meglio le risorse, lasciando il tempo alla natura di rigenerarsi, la biodiversità potrà essere recuperata.

La biodiversità, il climate change e …il Covid-19

Il valore intrinseco della biodiversità ha molteplici sfaccettature, in primis in riferimento alle esigenze nutrizionali dell’uomo. Si consideri ad esempio che oltre l’80% dell’alimentazione umana deriva dalle piante e 3 colture cerealicole – riso, mais e grano – forniscono da sole all’umanità il 60% dell’apporto calorico quotidiano, così come il pesce fornisce il 20 per cento di proteine animali a circa 3 miliardi di persone. Alcune riflessioni mettono però in evidenza, nell’ambito delle interrelazioni che si producono tra tutti gli Obiettivi dell’Agenda 2030, la centralità del tema della tutela della biodiversità in particolare per il contrasto al climate change e per l’affermazione del diritto alla salute. Se il primo aspetto è immediatamente riconducibile agli effetti nefasti di pratiche deleterie quali la deforestazione piuttosto che di fenomeni di depauperamento come la desertificazione, in merito al secondo, e specificamente in ordine all’emergenza sanitaria con cui conviviamo da oltre un anno,il filosofo della scienza Telmo Pievani ha recentemente suggerito che “ la pandemia di Covid-19 che ci ha travolti è un esempio di come, distruggendo le foreste e cacciando illegalmente gli animali- cioè non rispettando le indicazioni dell’Obiettivo 15-, aumentiamo la probabilità di contatto con essere viventi che portano in sé virus pericolosi, favorendo il salto di specie di malattie che possono rivelarsi letali, mettendo così a repentaglio la salute globale (contro lObiettivo 3) e generando una crisi economica e sociale drammatica (contro gli Obiettivi 12 e 8). Dunque bisogna spezzare questi legami negativi e invertirli, trasformarli in legami positivi, virtuosi”.

L’inarrestabile consumo di suolo di un Paese (l’Italia) che non ne avrebbe bisogno

Diversi Target del Goal 15 della Agenda 2030 avevano come scadenza l’anno 2020, ma sul punto l’Italia è in notevole ritardo, tanto che l’indicatore relativo elaborato dall’Alleanza Italiana per lo sviluppo (Asvis, l’Ente che monitora lo stato di attuazione dell’Agenda nel nostro Paese) volge decisamente al ribasso. 

Tab 2

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Andamento dell’indicatore Asvis per il raggiungimento del  Goal 15 (Fonte: Asvis, Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile)

Eppure nel 2010 venne salutato come una grande conquista il varo della Strategia nazionale per la Biodiversità, le cui previsioni richiederebbero però una forte accelerazione degli indirizzi programmati e una stringente coerenza con tutte le politiche che influenzano la gestione del territorio e la conservazione delle forme viventi. Al contrario dieci anni dopo sia la conservazione delle aree protette che la salvaguardia della biodiversità lasciano a desiderare, tanto che in Italia varie specie animali e vegetali rientrano nella lista rossa del WWF. In più, al secolare dissesto ambientale causato da siccità, incendi e alluvioni si aggiunge il perdurante sfruttamento indiscriminato del territorio, problematica della cui gravità emerge chiaramente l’assenza di consapevolezza da parte dei legislatori. Ne fornisce testimonianza il continuo rinvio dell’iter di approvazione del disegno di legge sul consumo di suolo, strumento che sarebbe oltremodo importante per prevenire i fenomeni di aggravamento del degrado del territorio segnalati, tra gli altri, dal Rapporto 2019 Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale)-Snpa (Sistema nazionale per la prevenzione dell’ambiente). In particolare, il Rapporto attesta che lo spreco di suolo avanza soprattutto nell’ambito dei maggiori agglomerati urbani, all’interno dei quali solo nel 2018 si sono persi 24 metri quadrati per ogni ettaro di area verde. Un fenomeno che in un Paese a bassa natalità come il nostro non può essere certo correlato alla crescita demografica: ogni abitante italiano ha ‘in carico’ oltre 380 metri quadri di superfici occupate da cemento, asfalto o altri materiali artificiali, un valore che cresce di quasi 2 metri quadrati ogni anno, con la popolazione che, al contrario, diminuisce sempre di più. “È come se – si legge nel Rapporto – nell’ultimo anno avessimo costruito 456 metri quadri per ogni abitante in meno”. Nell’ambito di una tendenza negativa l’unico elemento di positività riscontrabile per l’Italia nei confronti dell’Obiettivo 15 è dato dall’incremento dell’indice di boscosità, legato però prevalentemente all’abbandono dei terreni agricoli.

Il Capitale Naturale quale componente della creazione del valore di Coopservice

Raccogliendo l’invito delle Nazioni Unite affinché le aziende siano parte integrante della grande sfida della creazione di un nuovo modello di sviluppo sostenibile Coopservice  ha da tempo adottato procedure e metodologie per ridurre l’impronta ambientale delle proprie attività. Proprio alle politiche aziendali di preservazione del Capitale Naturale (“che include l’acqua, la terra i minerali, le foreste, la biodiversità e la salute dell’ecosistema”) è dedicato un intero capitolo del ‘Report integrato’ pubblicato annualmente, nella piena consapevolezza che esso rappresenta un fattore di input per la produzione di beni e la fornitura di servizi e che le attività di una organizzazione possono avere un impatto sia positivo che negativo su tale dimensione. Per Coopservice il tema della sostenibilità ambientale e della salvaguardia della biodiversità rientra infatti nella strategia di creazione del valore ed è parte integrante della mission e della stessa corporate identity: non a caso una componente del nuovo logo aziendale richiama espressamente l’attenzione all’ecologia e all’ambiente. 

 

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