L’Italia, patria di grandi conquiste civili, rischia oggi di essere una repubblica dove la sovranità popolare è ancora scritta nella Costituzione, ma nei fatti silenziata da istituzioni sorde e da una politica che si allontana sempre più dalla vita reale.
Abbiamo creato strumenti potenti — referendum, leggi d’iniziativa popolare, mozioni cittadine — ma li abbiamo resi inoffensivi. Come coltelli senza lama. I referendum sull’acqua pubblica, sul nucleare, sulla giustizia: momenti altissimi di coinvolgimento collettivo, ridotti a riti frustranti, archiviati senza seguito. Il Parlamento, chiamato a rappresentare, spesso tace. I cittadini, chiamati a partecipare, si sentono derisi. E così cresce l’astensione. Ma non è disinteresse. È delusione. È un urlo silenzioso: “Non ci crediamo più”.
Questa è la vera crisi democratica: non il conflitto, ma l’indifferenza. Non il dissenso, ma l’abbandono. Quando milioni di cittadini rinunciano al voto, non stanno scegliendo l’apatia, ma stanno denunciando una disconnessione profonda. Perché dovremmo votare, se poi la nostra voce non incide? Se chi ci rappresenta non ci rappresenta più?
I dati sono sotto gli occhi di tutti. I referendum, anche quelli sostenuti da milioni di firme, vengono ignorati o aggirati dalle istituzioni. Le proposte di legge di iniziativa popolare giacciono nei cassetti del Parlamento senza che mai venga aperto un dibattito. L’astensionismo cresce ad ogni tornata elettorale, e ora si riflette anche nella partecipazione diretta: basti pensare all’ultima, deludente raccolta firme del referendum “Per mio figlio scelgo io”, che ha visto una partecipazione modesta, sintomo di una popolazione che ha smesso di voler contare.
Il messaggio che emerge è chiaro: non ci fidiamo più della politica. Ma invece di reagire, ci ritraiamo. Smettiamo di firmare, di votare, di pretendere. Delegare ad altri – a chi grida più forte, a chi promette soluzioni semplici – sembra più comodo che mettersi in gioco in prima persona. Ma questa comodità ha un costo altissimo: la democrazia, se non praticata, si spegne. E se non siamo noi a decidere, saranno altri a farlo per noi.
Lo dimostra il silenzio che accompagna molte delle grandi questioni contemporanee. Oggi, nel cuore di Israele, la democrazia è lacerata da un conflitto interno tra la volontà popolare e le derive autoritarie. La gente scende in piazza per difendere i propri diritti, per opporsi a una politica che tenta di concentrare il potere e zittire il dissenso. Un popolo che si ribella per non essere escluso dal destino della propria nazione.
E qui da noi? Dove sono le piazze? Dove sono le firme? Dove sono i cittadini?
Questa non è solo una questione politica. È una questione di cultura, di educazione civica, di consapevolezza collettiva. Abbiamo smarrito l’idea che partecipare sia un dovere, prima ancora che un diritto. Abbiamo lasciato che il cinismo prendesse il posto dell’impegno, che la sfiducia sostituisse la speranza.
Eppure, la democrazia non si difende da sola. Non vive di automatismi. Vive solo se i cittadini ne fanno uso, se pretendono di essere ascoltati, se esercitano il diritto di voto come atto di responsabilità e non come gesto simbolico.
Non basta più chiedere perché non si vota. Dobbiamo chiederci perché nessuno si sente rappresentato.
La verità è che oggi il problema non è solo l’astensionismo. È la rappresentanza svuotata. È la mancanza di fiducia in un sistema che ascolta solo quando conviene, che coinvolge i cittadini solo in superficie. È per questo che milioni di persone hanno smesso di votare, di partecipare, di sperare.
Ma questo non può diventare la norma. Perché ogni volta che rinunciamo a partecipare, regaliamo un pezzo della nostra sovranità. Ogni volta che restiamo in silenzio, rinunciamo alla possibilità di cambiare le cose. Ogni volta che non votiamo, qualcuno voterà – o deciderà – per noi.
È tempo di una rivoluzione culturale: che rimetta al centro il senso civico, la responsabilità individuale e la fiducia nella partecipazione. Che restituisca forza agli strumenti di democrazia diretta, oggi svuotati e ignorati. Che imponga alle istituzioni di rispondere, di discutere, di ascoltare. Che spinga i cittadini a riappropriarsi del proprio ruolo.
La storia insegna che quando le democrazie smettono di ascoltare, altri modelli si affacciano. Più autoritari, più semplici, più seducenti per chi si sente tradito. Quando il voto perde significato, cresce la tentazione dell’uomo forte, del potere senza mediazioni. È già successo. E può succedere ancora.
Per questo, oggi più che mai, partecipare è un atto politico e morale. Votare, informarsi, chiedere conto, proporre: sono gesti semplici, ma essenziali. Perché una democrazia si difende solo praticandola, ogni giorno. E perché se smettiamo di pretendere rappresentanza, rischiamo di perdere anche la libertà.
Non possiamo permettercelo.